Matilde Iaccarino, un volto di Pozzuoli: sguardo intenso e occhi che sorridono sempre, colori tipicamente mediterranei. Matilde è una giovane puteolana con un curriculum che trasuda cultura, nata e cresciuta a Pozzuoli infatti è Dirigente Scolastica, Docente di Letteratura Italiana e Latina, Giornalista, Scrittrice. Ed è in questa veste di Scrittrice che decido d’incontrarla, per chiederle qual è il suo “cerchio d’oro”
PERCHÉ hai scritto questo libro? Cosa ti ha ispirato?
La decisione di scrivere questo libro l’ho presa più di 7 anni fa, e le mie motivazioni sono state di carattere personale, ma anche civile, sociale e politico.
Sicuramente la motivazione personale è stata la prima: vengo da una famiglia borghese, madre, padre, figlia unica. Una vita tranquilla, ordinata, scandita dai ritmi che dava mia madre. E in quanto figlia unica, vivevo in una campana di vetro, dove tutto era molto organizzato. Quando nel 1983 ci fu la famosa scossa del 4 ottobre, io avevo solo 10 anni e fummo costretti ad andare via, ci trasferimmo a Villaggio Coppola, e mi trovai all’improvviso in una situazione di estraniamento, di spaesamento. Quando entrai per la prima volta in questa casa, che era la residenza estiva di una famiglia di Grumo Nevano, sentii un odore di vecchio, poi entrando vidi un arredamento brutto, quasi orrido e questo fu davvero uno shock per me. Anche perché era una casa che non ci apparteneva, di transizione, e tutto in essa significava cambiamento e instabilità.
All’inizio ero molto spaventata, perché fummo costretti a vivere in palazzi con persone con le quali forse non avremmo mai avuto contatti se fossimo rimasti a Pozzuoli. Io avevo frequentato un asilo privato, mi affacciavo timidamente alla scuola media e quindi mi trovai in un mondo e in una dinamica che non conoscevo.
Fu solo in seguito che, insieme a tante mia amiche coetanee, molte delle quali ho intervistato nel mio libro o mi hanno rilasciato poi i loro ricordi successivamente, sperimentammo una inaspettata libertà, visto che i nostri genitori tornavano la sera tardi perché raggiungevano Pozzuoli o altre città per lavoro.
E così io come gli altri ragazzi della mia generazione ci siamo ritrovati adulti senza accorgercene, siamo cresciuti velocemente, più di quanto sarebbe stato possibile se fossimo rimasti a Pozzuoli.
Riguardo invece la motivazione sociale e politica, ho deciso di scrivere questo libro perché mentre del bradisismo del 70 se ne parlava tanto, quello dell’83 invece non è mai stato analizzato in modo strutturato.
E soprattutto ho capito, facendo le mie ricerche, che questa dell’83 è stata una grande ferita: per me innanzitutto perché in quegli anni ho anche perso mio padre, ma anche per tutti i puteolani come me la cui vita al rientro è cambiata radicalmente. E la conseguenza di questa ferita è che c’è stato un meccanismo di rimozione di quel periodo da parte dell’intera comunità puteolana, che ha smesso di pensare a quel periodo, a quella vicenda tragica pur di andare avanti.
D: Quindi mi stai dicendo che il 1983 è stato uno spartiacque che poi abbiamo rimosso?
Assolutamente sì. La controprova è stata che, quando ho cominciato a lavorare a questo libro, e volevo intervistare le persone, molti all’inizio non ricordavano e solo dopo, quando i ricordi riaffiorarono su stimolo da parte mia, mi richiamavano per raccontare le loro storie.
D’altra parte questo esodo di massa di una comunità defraudata del proprio posto e mandata altrove è stato un evento unico nel suo genere, e dopo la crisi abbiamo avuto tutti quanti il desiderio di chiudere questo capitolo, guardare avanti e non parlarne più. Proprio come accaduto con il Covid.
D: Tu pensi che in qualche modo oggi ci sta una maggiore consapevolezza di quello che è successo nell’83?
Con la scossa del 20 maggio scorso la ferita si è riaperta e la comunità si è vista costretta a recuperare quel trauma perché l’avevamo rimosso e dimenticato. Quando ho cominciato a lavorare a questo libro, quando l’ho presentato a Marzo del 2024, in tante persone mi hanno contattato, è come se avessero nuovamente preso consapevolezza che questo evento è già accaduto, accade oggi e accadrà di nuovo nel futuro.
COME hai scritto questo libro? Quali sono state le tue fonti?
Innanzitutto, ho ricevuto riscontri positivi sul mio lavoro per il modo con cui ho riportato fatti e racconti. Purtroppo, dal punto di vista documentale c’era molto poco, qualche video, documenti ufficiali della giunta comunale, poche fotografie. Ho fatto perciò un lavoro di emeroteca e ho ripescato i giornali dell’epoca che rappresentavano in maniera ovviamente soggettiva quanto stava accadendo.
Poi contattai Franco Cammino, che all’epoca era l’assessore alle politiche sociali che mi rilasciò delle interviste in cui mi ha raccontato come affrontarono l’emergenza e così ho scoperto per esempio che lui andava con la polizia municipale a sfondare le case da requisire, in modo violento, e questa cosa non era riportata da nessuna parte
Inoltre non avendo risorse o soldi per i servizi sociali, molti interventi furono affidati alla Chiesa. E infatti ho contattato e intervistato Padre Ferdinando Carannante, ho recuperato tutta la documentazione in originale presente in appendice al libro del lavoro fatto dalla Diocesi e dalla Caritas che svolsero il lavoro sociale che avrebbe dovuto fare lo Stato. La Caritas ad esempio fece contratti di lavoro ad assistenti sociali che si recavano presso queste comunità per sostenere la scolarità di ragazzi che non potevano andare a scuola, per assistere persone con handicap e anziani rimasti soli.
Durante questa ricerca ho avuto modo di visionare tanti documenti tutti interessanti, che però erano rimasti negli scaffali del Comune di Pozzuoli e che nessuno aveva mai visto o studiato. Come per esempio gli atti dei convegni, perché all’epoca se ne fecero tanti, straordinari e molto interessanti
COSA è l’emergenza del bradisismo e quali sono le conclusioni del tuo libro, anche alla luce della crisi tutt’oggi in corso?
Riprendo le parole di Franco Cammino, secondo cui all’epoca l’emergenza fu affrontata “a mani nude”. Non c’erano studi, non c’erano strumenti, non c’erano casistiche, non c’era storia.
Nessuno avrebbe mai immaginato che si potesse spostare una comunità così vasta e grande. Un po’ come appunto è caduto col Covid che è stato un fenomeno nuovo, improvviso che nessuno aveva mai affrontato prima.
Ciò su cui c’è da riflettere però è che oggi ancora parliamo di “emergenza” quando noi sappiamo bene e fu chiaro all’epoca che queste sono crisi cicliche, che si ripetono. Ma soprattutto sottolineo un concetto detto proprio in questo convegno citato nel mio libro, e cioè l’importanza di coinvolgere dal basso i cittadini per evitare di speculare e basare le decisioni soltanto sugli interessi di carattere economico e politico.
Ed è interessante notare anche che nell’83 la crisi arrivò in un contesto in cui la comunità di Pozzuoli era completamente diversa da quella di oggi: eravamo una comunità sostanzialmente operaia, pochi laureati, una realtà sociale medio bassa. Oggi in teoria ci dovrebbero essere i presupposti per affrontarla meglio, ma purtroppo avendo eliminato il ricordo di nuovo la viviamo come un’emergenza, nonostante siamo più preparati, più informati. E’ come se ricominciassimo da zero anche ora.
D: Come vedi il futuro da questo punto di vista? Se ti proietti nei prossimi quarant’anni, che cosa dovrebbe fare oggi Pozzuoli per non ricadere di nuovo nella gestione di una “emergenza” tra 30 o 40 anni?
Molti di coloro che hanno vissuto quell’epoca oggi sono ancora qui a Pozzuoli, a vivere questa nuova crisi: e oggi c’è la possibilità di far partecipare in maniera più diretta i comitati di quartiere e i cittadini.
Abbiamo una scolarizzazione più alta, siamo più documentati, più informati. All’epoca non sapevamo che cosa accadeva a Pozzuoli, la comunicazione era limitata ovviamente. Ora, con il supporto della comunità scientifica che monitora il territorio, dei politici che devono mettere in campo le azioni e in aggiunta con l’ascolto attivo della popolazione, secondo me si si possono mettere a punto dei protocolli chiari per il futuro e condivisi con la cittadinanza che porta con sé la memoria storica di quella “grande ferita” del 1983
E sembra chiaro oggi ancora di più che la soluzione non è andare via, perché questa comunità fu divisa, frantumata, e alla fine quelli che hanno scontato la pena più grande sono come sempre i più deboli.
D: Allora Matilde, pensi che ci sarà un “sequel”?
Sì, assolutamente, perché tantissime persone mi hanno scritto sui social, mi hanno contattato telefonicamente e vogliono raccontarmi la loro storia, le loro memorie, e poi ci sono persone che dicono di avere altri documenti, altro materiale fotografico, che vogliono proporsi per questo lavoro, per un secondo step. E con i miei colleghi docenti vorremmo portare questo libro nelle scuole per creare un legame della memoria tra genitori e nonni, creare quindi un archivio della memoria sul Bradisismo che ci permetta di ricordare tutto e non dimenticare
Grazie Matilde, questa intervista (la prima del mio Blog) resterà sicuramente impressa nella mia memoria!
Alla prossima.
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